Sono arrivato tardi al cinema perchè come tutti i teatranti consideravo il cinema qualcosa di inferiore. L'attore di cinema può anche essere un cane, basta che la faccia sia giusta, e quindi mi interessava poco. Tutti mi dicevano 'Devi fare cinema!' Però il teatro mi dava già gratificazioni e avevo messo su una mia compagnia. Poi Gian Luigi Calderone, che mi aveva visto a teatro, nel 1992 mi ha chiamato per un film tv, Il giovane Mussolini, con Antonio Banderas protagonista. Calderone mi ha detto. 'Ma tu non hai un agente?'. 'No, non ce l'ho un agente'. 'Dovresti trovartelo'. Alessandro Haber un giorno mi ha portato di peso da Fausto Ferzetti, l'agente fratello di Gabriele, e gli ha detto : 'Questo qui deve fare l'attore al cinema'. E Ferzetti mi disse 'Hai una faccia che puoi fare dal quarantenne al novantenne'. In effetti è stato così, ho interpretato padri, figli, fratelli. Poi mi ha chiamato Mario Martone per Morte di un matematico napoletano. Mi ha affidato un piccolo ma significativo ruolo nel suo film e con lui è avvenuta la svolta. Marco Tullio Giordana ha visto il film e ha deciso che la mia faccia fosse quella giusta per interpretare l'ispettore in Pasolini, un delitto italiano. Subito dopo mi ha chiamato Marco Bellocchio per il ruolo di un generale nel Principe di Homburg. Mi ha fatto il provino, poi mi ha detto: 'potresti leggere queste battute?'. Ne ho lette appena due e lui: ' Basta così, lo voglio... Ti va di fare la parte dell'Elettore?'. Per quel ruolo aveva provinato perfino Marcello Mastroianni. Il film è stato a Cannes. Ho avuto ottime critiche e a questo punto mi sono detto: 'magari devi davvero darti al cinema'.
Il ruolo dell'ispettore Pigna di Pasolini un delitto italiano, mi è molto caro, io sono un attore recito, faccio finta, lì invece facevo qualcosa di più che recitare, mi si è appiccicato addosso come una seconda pelle. Forse perchè conoscevo Pasolini. L'avevo incontrato quando ero ragazzo e frequentavo la scuola dello Stabile di Torino. Venne a fare una serie di spettacoli teatrali e messinscene bellissime; poi il pubblico interveniva e lui rispondeva con calma anche alle ingiurie. Sembrava San Sebastiano. Aveva un modo di fare pazzesco. La prima cosa che ci chiese fu chi giocasse a pallone perchè voleva organizzare una partita di calcio. Poi ci domandò perchè volessimo fare gli attori. Gli risposi. 'Io ho sempre recitato, fin da quando ero piccolo. Mi piaceva recitare le poesie. Faccio questa scuola ma in realtà quello che mi dicono lo sapevo anche prima. Senza saperlo, però lo sapevo'. Gli spiegai che quello che mi piaceva meno era la dizione. E lui: 'Non impararla mai la dizione, non studiarla proprio. Devi essere te stesso, se sei piemontese che si sappia che sei piemontese'. E sono andato avanti così per anni. Ancora adesso non mi curo delle 'e' strette o larghe.
La vocazione letteraria l'ho scoperta tardi. Dovevo scrivere una lettera a mio fratello maggiore per chiedergli delle spiegazioni. Quando l'ho finita mi sono accorto che erano 20 pagine. Gliel'ho spedita. Lui mi ha detto. 'La tua lettera non mi è piaciuta per i contenuti, però è scritta benissimo. perchè non provi a fare lo scrittore?
Il primo libro l'ho buttato giù in una notte.
Ho iniziato a fare l’attore, come naturale conseguenza del mio spirito artistico, visto che non avevo potuto studiare il pianoforte tanto da poterci fondare un lavoro, una carriera perché mio padre mi aveva impedito di iscrivermi al Conservatorio, cosa che non gli ho mai perdonato.
Con un gruppo di amici pazzi, avevamo messo su una cooperativa teatrale che, in quegli anni post-sessantottini, si opponeva al teatro blasonato, quello degli attori usciti dall’Accademia, con la voce impostata e la dizione perfetta, e propugnava invece un teatro sperimentale e di avanguardia, sulla scia dell’americano Living Theatre.
Rifiutavamo la tradizione veristico-naturalistica propugnata da registi di fama quali Visconti e Strehler e favorivamo per questo una recitazione volutamente algida e antinaturalistica, con regie innovative e non melodrammatiche. Non per nulla affrontavamo autori fino ad allora mai rappresentati in Italia, quali Büchner, Brecht, Majakovskij. Volevamo fare teatro di rottura, che contribuisse alla trasformazione del mondo, in aperta contrapposizione al teatro borghese degli Stabili.
La compagnia l’avevamo chiamata provocatoriamente Granteatro, nome suggerito da Elsa Morante, nume tutelare del gruppo, per sottolineare anche nel nome la nostra distinzione dallo strehleriano Piccolo Teatro, simbolo del linguaggio borghese dei teatri Stabili.
Accanto all’avanguardia d’oltralpe, il Granteatro recuperava anche la tradizione del teatro popolare dialettale, in particolare quello napoletano (Petito, Scarpetta, Eduardo), alla ricerca di una forma di teatro vivo, che potesse parlare al popolo, che instaurasse con esso una tensione comunicativa che in qualche modo fosse anche una tensione politica, di classe, rivoluzionaria. Era giocoforza, a quel punto, che la compagnia fuggisse i luoghi paludati, regno di stucchi e velluti, e il pubblico in pelliccia, e si rifugiasse nelle Case del Popolo sparse nelle Regioni “rosse” (Emilia, Toscana, ma anche Puglia e Basilicata), nelle fabbriche occupate, nelle palestre delle scuole.
Quando abbiamo messo su Il bagno di Vladimir Majakovskij, una feroce satira della burocrazia sovietica, il lavoro sul testo è stato lungo e impegnativo, Carlo Cecchi, il regista della Compagnia teatrale puntava molto su quella realizzazione e chiedeva tantissimo ai propri attori, che dovevano estremizzare al massimo la caratterizzazione del proprio personaggio per renderlo paradigmatico, una maschera fissa del proprio ruolo. Il tutto richiedeva una forte concentrazione, perché era vietatissimo ricorrere a ogni naturalità e spontaneità recitativa. La recitazione sulla scena doveva essere completamente antinaturalistica e straniante, la pièce era ridotta a sette quadri staccati l’uno dall’altro e introdotti da siparietti clowneschi. L’impegno era notevole e lo stress altissimo. Il regista esigeva dagli attori una recitazione nuova, mai sperimentata prima, e per questo ci massacrava di prove, con il risultato che ognuno di noi altalenava fra momenti di esaltazione parossistica e momenti di profondo sconforto e incertezza. Specialmente io era frastornato; ero un attore spontaneo, non avevo mai seguito una scuola eppure in scena riuscivo naturalmente a essere convincente, ma lo sperimentalismo esasperato richiesto dal regista – e il suo piglio autoritario – mi avevano portato a perdere la fiducia nelle mie capacità recitative e mi sentivo spesso insicuro e perduto.
A me toccavano sempre particine di contorno. Vivevo in questo clima tesissimo, dal punto di vista professionale, e dubitavo delle mie doti, ma ho una scorza dura e non mi sono mai lasciato trascinare dalla depressione, e raddoppiavo l’entusiasmo e mettevo l’anima anche nelle piccole parti, e il pubblico e i critici mi notavano sempre. La tournèe, nel ’72, la facemmo viaggiando su un pulmino Wolkswagen con le scene caricate sul tetto. Fu una tournèe indimenticabile, risate e divertimento continuo, lo spettacolo aveva un successo strepitoso, lo facevamo ovunque, nelle piazze, nelle palestre delle scuole, nelle case del popolo, nelle fabbriche occupate dagli operai in sciopero, ovunque. Toccavamo anche qualche teatro famoso nelle grandi città, Milano, Torino, Genova, Bologna, e allora le critiche ci esaltavano, ci mettevano sugli altari. Soldi ce n’era pochi, ma si mangiava tutti i giorni e spesso la compagnia era invitata da qualcuno del pubblico o dagli organizzatori. Questa vita durò parecchio, tutta l’estate e l’inverno successivo fino all’altra estate. Si era, circa, nel ‘72/’73.
Durante la tournèe di Woyzeck, l’anno successivo, Carlo Cecchi si ammalò, e io che avevo provato per mesi la sua parte, lo sostituii. Fortuna volle che fossimo a Palermo, dove i critici fecero elogi sperticati di me, scambiandomi per lui. Lette le critiche Carlo venne a nostra insaputa a vedere lo spettacolo, mi vide, e non ebbe più il coraggio di togliermi quella parte. Da lì cominciò la mia rinascita. La cooperativa durò dieci anni. Ero un gran lavoratore, scaricavo il camion, adesso avevamo un camion, montavo lo spettacolo, scene e luci, recitavo, e dopo smontavo tutto, ricaricavo e partivo per la nuova piazza. Eravamo in due a sobbarcarci questa mole di lavoro, io e Gianni Guaraldi, gli altri erano pigri e, fingendo di aiutarci, ad uno ad una sparivano e si andavano a sedere ai tavoli del ristorante, dove noi arrivavamo un’ora dopo. Vabbè, chissenefrega, la mia carriera di attore l’ho fatta, sono arrivato anche al cinema e ho fatto il regista, ho avuto riconoscimenti, sono stato premiato, ho cominciato a scrivere, i miei libri sono stati pubblicati e mi sento in pace con me stesso.
I cinepanettoni? no! non li farò mai!